A fine luglio il mondo delle rinnovabili è entrato nuovamente in un vortice discendente: in soli due mesi, o poco più, l’indice S&P Clean Energy ha perso il 30% del suo valore, portando la perdita dall’inizio dell’anno a -33%, paragonabile al grande ridimensionamento del 2021, quando lo stesso indice ha perso il 34%. Se però a gennaio di due anni fa le valutazioni erano eccessivamente alte, oggi paiono diametralmente opposte.
Il sentimento degli investitori si è incrinato col taglio di Fitch sul debito americano di inizio agosto, giustificato dall’elevata spesa pubblica dello Stato a stelle e strisce, il cui piano infrastrutturale comprende i noti 469 miliardi dell’Inflation Reduction Act (IRA) e i crediti per la trasformazione verde. Il sentimento negativo si è acutizzato a inizio settembre quando sono stati messi in discussione i progetti wind offshore sulla costa est, dopo una lotta tra compagnie costruttrici e l’amministrazione newyorkese: le prime a chiedere maggiori incentivi per supportare i progetti gravati dall’aumento dei costi dovuti all’inflazione, ai salari, all’aumento repentino dei tassi e ai ritardi legati alla catena di approvvigionamento, la seconda nel ribadire il rispetto dei contratti. La conseguenza è stata che non solo sono stati sospesi i lavori in US, ma anche l’asta successiva in UK, per progetti che dovevano sviluppare 4GW basati sulla stessa tecnologia, è andata deserta: un “disastro” per Ed Miliband, il principale candidato dell’opposizione inglese al ruolo di Ministro della Sicurezza Energetica.
L’allarmismo degli investitori è stato tale che non solo hanno venduto le azioni legate alle società del wind offhore, ma, facendo di tutta l’erba un fascio, hanno venduto anche società legate al solare e all’idrogeno. Questo effetto però è spesso dovuto all’acquisto e alla vendita di ETF, come quelli presenti sullo S&P Clean Energy appunto, che al loro interno comprendono società legate a diverse tecnologie. Le vendite si sono spinte fino a creare delle inefficienze di mercato che spesso capitano, quando il panico dilaga. Facendo un esempio, la danese Orsted, leader mondiale tra gli sviluppatori di wind offshore, colpita maggiormente dalle vendite (anche perché gli altri attori sono società petrolifere come Equinor o BP le cui valutazioni sono sostenute dal prezzo del greggio), ha visto il suo prezzo di borsa scendere da più di 600 DKK a poco sopra i 300, valore che va rapportato ai 400 DKK con cui gli analisti prezzano la sola potenza installata dalla società; non stiamo parlando di progetti futuri o in costruzione, ma di progetti fatti e finiti.
Passando al solare, le incongruenze paiono anche maggiori: le società legate a questa tecnologia stanno vedendo i costi scendere considerevolmente: il polisilicio è passato dai 30 centesimi al Watt di inizio anno ai 10 attuali. Questa riduzione più che compensa l’aumento dei costi dovuti all’inflazione, al lavoro etc. Nonostante ciò i prezzi di mercato delle società sono calate tra il 20% e il 40% quest’anno, spingendo alcune di esse a iniziare piani di buy back.
L’Idrogeno dal canto suo, ha avuto anche il supporto del dipartimento di energia statunitense il quale ha stanziato sette miliardi di dollari per la costruzione di sette hub di questa tecnologia dispiegati per il paese; nonostante ciò, le società hanno perso in media più del 40%, dall’inizio dell’anno.
Certo che tassi alti e condizioni di credito alle imprese sempre più stringenti pesano sulle società in forte crescita di questi settori, ma la sensazione è che molti investitori abbiano messo in dubbio tutta la trasformazione energetica, seppur Europa e Cina vadano avanti coi loro programmi e con le risorse ingenti messe a disposizione. Non solo, nonostante i problemi incontrati, anche New York e la Gran Bretagna hanno degli obiettivi ben precisi: la prima deve generare il 70% dell’energia derivante da fonti rinnovabili entro il 2030, sviluppare 9GW da wind offshore entro il 2035 e avere zero emissioni entro il 2040; la seconda si è prefissata di installare 50GW di eolico entro il 2030, quando a oggi ne vanta solo 14. Tenendo conto che tra preparazione delle aste e costruzione dei parchi eolici si impiegano dai quattro ai sei anni, si capisce bene come il tempo rimasto non sia poi molto, e nuove aste a condizioni più in linea col mercato sono attese a stretto giro.