Chi non mai provato le cannucce di cartone, con quel sapore asciutto che altera la percezione del gusto della bevanda? Da McDonalds, prendendo una granita in gelateria o semplicemente a casa, perché sui banchi del supermercato non si trovano più i vecchi tubicini di plastica multicolore. Conseguenza della sostenibilità. Dal 14 gennaio di quest’anno, la plastica monouso è stata bandita anche dall’Italia, così abbiamo piatti di carta, posate di legno e cotton fioc di bambù.
Un passaggio obbligato, dato che la plastica monouso rappresenta, insieme agli attrezzi da pesca, il 70% dei rifiuti marini, secondo la direttiva europea SUPD (Single Use Plastic Directive), entrata in vigore già dal luglio scorso.
I produttori principali della plastica monouso sono sempre le bistrattate oil company, in buona compagnia con le società del settore chimico. Le prime venti compagnie producono più della metà della plastica monouso che utilizziamo nel mondo. La prima è Exxon Mobile, seguita dall’azienda chimica americana Dow e dalla cinese Sinopec. Il primo stato a produrre plastica è la Cina, seguito da Stati Uniti e India. C’è anche un’europea nella lista delle prime venti, e guarda caso è la più grande oil company europea: Total. La stessa Total che promette 7GW di energia solare ogni anno.
Andando a vedere chi detiene più azioni di queste società, a parte i governi proprietari delle proprie oil company, come quello cinese e dell’Arabia Saudita, ci sono investitori int ernazionali di ETF, quali Vanguard, Blackrock e State Street. Si sponsorizzano investimenti green, ma poi si vendono prodotti come gli ETF, che devono seguire fedelmente l’andamento dei mercati mondiali, che non ti permettono forse di agire come vorresti. È business.
Non si vuole fare la guerra a chi produce plastica e a chi investe in queste società, dato che esse hanno già i loro problemi coi divieti di vendita e tasse che stanno fioccando per ora in Europa, bensì mettere in luce quelle compagnie che da questa trasformazione hanno trovato nuovo slancio.
Con l’avvento dell’era digitale, la carta stampata è andata sempre più in declino. Verso la fine del 2016 e nell’anno successivo, ci si domandava che fine avrebbero fatto società legate a questo materiale, così come le aziende che lo riciclavano, dato che il consumo di carta non vergine era sempre minore. Ecco, dunque, che un cambio di vedute verso un mondo più sostenibile - dove il packaging delle grandi distribuzioni si sta orientando verso un consumo minore di plastica a favore della carta, del legno e di altri materiali più sostenibili e in cui la circolarità dei materiali è un pilastro fondamentale - porta alla ribalta un settore che pareva destinato all’estinzione.
Oltre a una versione più sostenibile del mondo, c’è stato anche il boom di Amazon e del commercio on line, che ha richiesto, e richiede, sempre più cartone per gli imballaggi, e le nuove abitudini dei Millennials, e non solo, quali il food to go, in cui i contenitori del cibo in plastica sono sostituiti sempre più da quelli in carta.
Così un settore che è cresciuto per trent’anni al 3%, in linea col GDP mondiale, poi visto sul baratro, si ritrova oggi a crescere quasi a una velocità tripla rispetto al passato.
Nella filiera del prodotto finito, però, ci sono diverse attività con margini ben differenti.
Partiamo dalle società che estraggono il pulp, ossia la cellulosa, risorsa primaria con la quale si fabbrica la carta vergine. Questo materiale, che in Europa è prodotto prevalentemente nelle regioni del nord, negli ultimi due anni è arrivato a costare il 60% in più. Il motivo è da ricercare nell’aumento del costo dell’energia e dei trasporti e nella pandemia che ha ridotto in generale la disponibilità di forza lavoro, che ha portato anche a una riduzione della produzione. Anche l’OCC (Old Corrugated Container, il cartone dismesso), utilizzato per creare il cartone riciclato, ha visto lievitare i prezzi del 70%, complice sempre il Covid che ha impoverito l’offerta, con la conseguente chiusura dei negozi che vendevano questa risorsa. Per mantenere margini decorosi, queste società hanno alzato i prezzi del prodotto finito, cosa che ha penalizzato le realtà più a valle della catena del valore. Tra queste ultime, le produttrici di contenitori, piatti, posate, cannucce e altri oggetti hanno visto aumentare il costo della materia prima e ridurre i ricavi ridotti dalla pandemia, perché negli ultimi due anni si è andati meno nei fast-food, si sono fatti meno picnic e ci sono state meno feste con catering. C’è però da pensare che con un ritorno alla normalità tutte le aziende di questo settore potranno trovare nuovo slancio in profitti e margini, aiutate dalla domanda sostenuta.
Ci sono però anche ombre in questo nuovo ciclo di vita della carta: tra i settori più penalizzati dall’aumento degli ultimi anni c’è l’editoria, che dal 2020 ha visto l’incremento del costo della carta patinata del 20%, fino a un 50% per la carta più pregiata e i cartoncini, tanto che molte piccole case hanno dovuto tagliare la produzione, perché aumentare i prezzi dei libri ridurrebbe le vendite. Aggiungiamo che questo aumento del consumo di carta potrebbe impoverire il pianeta di quegli alberi necessari alla sua produzione e che, se non reimpiantati come succede responsabilmente nel nord Europa, non farebbe altro che spostare il problema dall’inquinamento per la plastica a una minore sostenibilità di un pianeta sempre più disboscato.
In ogni cambiamento la cosa più difficile è mantenere l’equilibrio. Spesso nel perseguire un obiettivo si rischia di penalizzare risorse importanti. Se la tecnologia trovasse più alternative alla plastica che non sia la sola carta, come a esempio le bioplastiche che oggi costano di più, ma che, come tutte le nuove tecnologie, hanno margini di miglioramento, forse avremmo meno cannucce dal sapore fastidioso e più scelta sugli scaffali delle librerie.