Una cosa sono le parole, un’altra i fatti. Le prime appartengono di più agli anziani di vecchia generazione, i quali pensano molto prima di agire. Dall’altra parte, i giovani agiscono alla svelta, magari ancor prima di pensare.
Se si pensa al green, viene in mente il Vecchio Continente. L’Europa con i suoi programmi e le sue regole: Green Deal, Next Generation EU, Tassonomia (acclamato come il primo vademecum verde a livello mondiale), SFDR ecc., direttive che hanno influenzato molto anche gli investimenti finanziari, con le classificazioni dei fondi di investimento in art. 6, art. 8 e art. 9. In America, invece, non si è fatto nulla per classificare gli investimenti sostenibili, ma si sono adottate misure a livello di politica finanziaria (IRA) per agevolare le società operanti nel settore, lasciando agli investitori la valutazione della proficuità delle società interessate dalle nuove regole. Il risultato è che mentre l’Europa chiacchiera, l’America agisce. Così, anche in materia di rinnovabili, l’America si appresta a superare l’Europa, nonostante la leadership che quest’ultima pretende di avere a parole.
Dal punto di vista politico, le cose sembrano confermare questa tendenza: gli Stati Uniti stanno diventando politicamente più green, mentre l’Europa fa marcia indietro.
Si può leggere in questa maniera la candidatura della Harris alla corsa alla Casa Bianca, la quale ha dato nuovo slancio al settore delle rinnovabili, che erano state messe a rischio da una facile vittoria di Trump. Di contro, in Europa si è visto un susseguirsi di elezioni politiche che hanno visto la vittoria dei partiti di destra e una progressiva sconfitta della sinistra, in particolare dei partiti verdi, come accaduto all’Europarlamento, in Germania e in ultimo in Austria. Fa effetto poi sapere che una società leader mondiale nelle costruzioni abbia dichiarato che la Germania non ha ancora investito un centesimo nelle infrastrutture verdi, quella stessa Germania che si è autoproclamata leader del green, chiudendo le centrali nucleari prima di tutti, ma che ha visto il partito dei Verdi dimezzare i propri consensi, portando alle dimissioni dei propri leader pochi giorni fa.
Non a caso, l’indice delle rinnovabili globale, come lo S&P Clean Energy, guidato dalle solari statunitensi, ha recuperato gran parte delle perdite subite quest’anno (anche se rimane comunque negativo per il quarto anno di fila), registrando a fine settembre una perdita intorno al 5%, mentre un indice prettamente europeo delle energie rinnovabili, l’ERIXP Index, ha perso il 25% nello stesso periodo. E dire che negli ultimi tre anni, fino allo scorso giugno (data delle elezioni europee), i due indici avevano pressoché lo stesso andamento.
Si ha dunque la sensazione che, nonostante l'Europa si sia autoproclamata leader mondiale negli investimenti green, non riesca a ottenere un seguito da parte degli investitori. Al contrario, negli Stati Uniti, gli investitori si avvicinano al settore green esclusivamente per il profitto, senza alcuna influenza ideologica. Da ciò si può dedurre che le politiche statunitensi, pur non facendo grandi distinzioni tra investimenti green e tradizionali, risultano essere più efficaci rispetto a quelle europee, le quali si devono anche adattare a mutamenti in corso d'opera, come dimostrano i cambiamenti riguardanti il nucleare e il gas nella Tassonomia.
Un esempio di mancanza di efficacia delle regole europee lo si nota anche nella capacità di incanalare gli investimenti verso politiche davvero green, ossia nel combattere il greenwashing, cosa che gli Stati Uniti si vedono bene dal fare, vista la loro ottica più speculativa che ideologica. La proliferazione di fondi classificati come art. 8 in Europa, infatti, ne è una conferma: un fondo appartenente a questa categoria può praticamente investire nella quasi totalità del mercato europeo. Difficile trovare società che non siano considerate green: è stato ribadito più volte che lo STOXX 600 ESG contiene più di 560 azioni, contro le 600 dell’indice tradizionale. Se poi nella politica d’investimento dei fondi si introduce una percentuale, anche minima, di investimenti non green, il gioco è fatto. Di contro, Standard & Poor’s ha fatto meglio con il suo principale indice, lo S&P 500 Index, la cui versione ESG esclude il 30% delle società.
Almeno su questo fronte, l'Europa sta cercando di correre ai ripari. Nei nomi dei fondi che non detengano almeno l'80% di asset sostenibili, termini legati al “green” come “ESG”, “Sustainability”, “Transition” e simili saranno vietati. Tali parole saranno ammesse solo per i fondi classificati come art. 8 con almeno l'80% di asset sostenibili, e per quelli art. 9. Tuttavia, questo cambiamento dovrà essere accompagnato dal mantenimento degli obiettivi prefissati per il 2030 e il 2050, nonostante le sfide poste da guerre, inflazione e la conseguente ascesa dei partiti di destra in Europa. La possibile riconferma della Von der Leyen, nonostante la débâcle dei partiti verdi, potrebbe rappresentare un elemento di stabilità e garanzia per il futuro delle politiche green.