Il Cammino di Santiago è un pellegrinaggio lungo 800 km. Si parte a piedi, zaino in spalla, da St Jean Pie de Port e si giunge a Santiago de Compostela. Chi si appresta a tale impresa sogna l’arrivo ancor prima di mettersi in viaggio. Si immagina i paesaggi campestri, le chiese, i castelli che incontrerà sul suo cammino, così come la fatica e il sudore, seppur edulcorati dal pensiero di varcar quella soglia che delimita la città santa. Ben presto, però, si accorge che non è tutto così idilliaco come aveva immaginato. Le vesciche ai piedi fanno male la mattina, il sole del pomeriggio brucia sulla pelle e inaridisce la gola percorrendo le Mesetas e la meta sembra non arrivare mai. Lo sconforto può tramutarsi in pianto, e la paura di non farcela incombe.
Anche il mondo che si è riunito a Glasgow per COP26 sta preparando il proprio lungo viaggio. Per la prima volta da quando si è sentito parlare di Green Deal e di piani infrastrutturali verdi, ci si è incontrati tutti insieme per tracciare la via verso la neutralità di emissioni GHG entro la metà di questo secolo.
Come chi muove i primi passi di un viaggio e si sente animato da buoni propositi, la “Conference Of the Parties” è partita bene sul tema della deforestazione, con 137 paesi, possessori del 90% delle foreste della Terra, che hanno sottoscritto un accordo col quale si impegnano a fermare la deforestazione entro il 2030. Ma già dal terzo giorno, i primi dolori si sono fatti sentire, quando sul sentiero ci si è dovuti confrontare sul metano, un gas che, sì, riscalda 80 volte più della CO2, ma i cui effetti scompaiono solo dopo un ventennio. Nonostante l’accordo di ridurre del 30% le emissioni di metano entro il 2030 rispetto alla fine del 2020 non sia un’impresa titanica con le attuali tecnologie, stati importanti quali Cina, Russia, India e Australia sono rimaste fuori. Nonostante l’accordo di ridurre del 30% le emissioni di metano entro il 2030 rispetto alla fine del 2020 non sia un’impresa titanica con le attuali tecnologie, stati importanti quali Cina, Russia, India e Australia sono rimaste fuori.
Siccome i governi hanno sempre detto che i fondi pubblici non sarebbero mai stati sufficienti per raggiungere l’obiettivo, durante la conferenza si sono strette alleanze di capitali privati: la Glasgow Financial Alliance for Net Zero raggruppa le alleanze già esistenti dei diversi settori finanziari, quali Net Zero Banking Alliance, Net Zero Insurance Alliance, Net Zero Asset Owner Alliance ecc., una dote di 130 trilioni di dollari tra banche, assicurazioni, istituti di credito, fondi, fornitori di servizi finanziari per aiutare la lotta al cambiamento climatico. Peccato che molti istituti, nonostante l’adesione a una o più alleanze, abbiano ancora in portafoglio ingenti prestiti verso compagnie ancora alla ricerca di nuovi giacimenti di gas e petrolio, mentre altri non sono poi così veloci nel dismettere finanziamenti al carbone. È bene quindi fare attenzione alla selezione, quando i fondi sostenibili approcciano un settore trasversale quale quello finanziario.
Tra le altre iniziative che si possono leggere ovunque sul web, digitando COP26, sono tornati a far parlare di sé il gas e il nucleare come fonti necessarie per la Transizione Energetica. Non solo la Francia, che avrà un suo cittadino alla guida del Consiglio dell’Unione Europea il prossimo semestre, ha ribadito la sostenibilità dell’atomo, ma anche Draghi e la Von der Leyen hanno commentato che il raggiungimento dell’obiettivo prefissato non sarebbe possibile con le sole fonti rinnovabili, non ancora sufficienti a rimpiazzare quelle fossili. Questi commenti hanno due risvolti importanti per gli investimenti sostenibili: da una parte ci fanno intuire quanto siamo ancora lontani (almeno 30 anni) dall’eccedenza di offerta per fonti pulite quali solare, vento e idrogeno, e dall’altra la possibilità di avere il gas (come fonte di transizione) e il nucleare all’interno della Tassonomia europea. Un’apertura importante per queste due fonti finora trascurate dai fondi ESG, anche se sette stati europei, capitanati dalla Germania, hanno sottoscritto una dichiarazione contro il nucleare nella Tassonomia.
In extremis, un altro punto ha fatto traballare la riuscita di COP26: il cambio di una sola parola, ma essenziale. Anziché avere una “phase-out” (uscita) dal carbone entro il 2050, ci si è accordati su una “phase-down” (diminuzione) entro tale data. Così quella che doveva essere una neutralità di emissioni GHG entro il 2050 è diventata una neutralità di emissioni nell’intorno della metà di questo secolo. Fautrici di questo colpo di codaai tempi supplementari sono state Cina e India, due nazioni che hanno sempre più peso a livello mondiale, che col loro diktat hanno quasi compromesso tutto il lavoro della conferenza, dando la possibilità a Greta Thunberg di riproporre il suo ‘bla bla bla’ quale risultato sommario delle azioni messe in piedi dai governi mondiali per contrastare il climate change.
Abbiamo almeno salvato quel grado e mezzo come punto di innalzamento delle temperature da qui al 2050, il che prevede una riduzione del 45% delle emissioni al 2030 rispetto al 2010.
Nonostante tutto, però, anche nazioni che prima non accettavano la CO2 come principale responsabile del riscaldamento globale, si sono piegate a questa evidenza, cosa che ha portato alcuni critici, quale Greenpeace, a riconoscere che questa COP26 di Glasgow ha segnato una cosa importante: l’inizio del declino delle fonti fossili.
Come abbiamo concluso nello scorso numero (vedi Veicoli a due velocità – Greenwashing), siamo solo all’inizio di un lungo viaggio, che durerà trent’anni e che vivrà di momenti bui e giorni di gloria. E la conferma l’abbiamo avuta subito.